Pangea, Marzo 17, 2018
“La Commedia è il libro fondamentale”: dialogo con Jorge Aulicino, che ha trapiantato Dante (e Pavese, e Pasolini) in Argentina
Dante Alighieri, Inferno. Il mucchio di versi più noto del mondo occidentale. “En el medio del camino de nuestra vida/ me encontré en una selva oscura:/ la derecha senda había perdido.// ¡Ah, cuánto el decir cómo era es cosa dura,// esta selva salvaje y áspera y fuerte// que en la mente renueva la pavura!”. Ascoltare Dante ci fa sentire a casa. Dante romba nel nostro sangue, le sue terzine rimbombano nei nostri polmoni. Perfino leggere Dante in spagnolo non è una esperienza straniante. Quelle parole ci sono così note, rintoccano genealogie e parentele, che l’Arno e il Rio della Plata, improvvisamente, ci sembrano lo stesso fiume. L’evento letterario più potente dell’ultimo decennio, in Argentina, è la traduzione della Divina Commedia in spagnolo. A compierla, uno dei poeti più autorevoli del latinoamerica. Jorge Aulicino. Classe 1949, notevole carriera come giornalista culturale (prima come editorialista per il Diario de poesía, poi come vicedirettore del supplemento culturale del Clarín), lirico tra i più raffinati dell’altro lato del mondo (nel 2015 ottiene il Premio Nacional de Poesía; tra le sue raccolte ricordiamo Poeta antiguo, La línea del coyote, El Cairo, nel 2012 ha radunato i suoi versi come Estación Finlandia), è traduttore dall’italiano. Nel 2016 ha pubblicato una antologia di poesie di Pier Paolo Pasolini, l’anno scorso ha tradotto Cesare Pavese, è passato attraverso Guido Cavalcanti, Franco Fortini, Giuseppe Ungaretti, ma pure tra i contemporanei, Antonella Anedda e Biancamaria Frabotta, ad esempio. “Leggo la Commedia da 40 anni”, ci ha detto. In effetti.
*
Jorge Aulicino, tra i grandi poeti argentini di oggi, ha pubblicato nel 2015 la sua versione della Divina Commedia. Un evento culturale e letterario
Nel 2011 esce l’Inferno. Quattro anni dopo, nel 2015, è pubblica la Commedia. Non che non ne esistessero altre di versioni argentine della Commedia. Ma questa. Il poeta più grande d’Argentina che traduce il Sommo Poeta. Come se Mario Luzi avesse tradotto tutto Shakespeare. Un paragone lecito, forse, è quello con i greci reinventati da Quasimodo. L’impatto sulla cultura argentina è possente. La divina comedia: una epopeya argentina, titola La Nacion, in uno degli innumerevoli articoli dedicati all’impresa ‘mostruosa’ – o meglio, ‘divina’ – di Aulicino. “Monumento della cultura occidentale e tesoro letterario”, specifica l’editore Edhasa, che ha pubblicato la traduzione. ‘Agitatore culturale’, Aulicino ha costruito un suo personale ‘Museo de poesía antigua y contemporánea’ nel blog Otra Iglesia Es Imposible, una boccata d’ossigeno lirico buono, dove propone le poesie che gli piacciono. Infaticabile ‘dantista’ nel suo spazio facebook, al di là di architettati accademismi, Aulicino rilegge e commenta – e qualche volta ritraduce – la Commedia. Ora si sta occupando del Paradiso. Le sue lezioni digitali sono assai seguite. A pensarci si resta con la lingua all’aria: a Buenos Aires e dintorni, nei social, si parla di Dante. Secondo Aulicino, la lettura della Commedia è sterminata, perché il libro di Dante, la quintessenza dell’Occidente, è infinito. Sarebbe d’accordo pure Borges.
Quando hai scoperto l’amore per la letteratura? Come mai? Che affinità ci sono, a tuo avviso, tra la poesia italiana e quella argentina?
L’amore per la letteratura l’ho sentito non appena ho imparato a leggere. Durante tutta l’infanzia e parte dell’adolescenza ho letto solo prosa. Alle scuole superiori ho scoperto la poesia e mi ha attirato il modo particolare in cui le parole si muovevano in essa. C’è sempre un mito all’inizio, direbbe Pavese. E con questo, passo alla seconda parte della tua domanda: dagli anni Cinquanta la poesia italiana ha cominciato a influenzare i poeti argentini. Cesare Pavese, Eugenio Montale, Giuseppe Ungaretti sono stati i primi a essere letti e tradotti qui. Abbiamo avuto, dagli anni Cinquanta, ottimi traduttori di poesia italiana: Horacio Armani, Rodolfo Alonso, Leopoldo Di Leo sono stati gli antesignani. Alonso è stato il primo traduttore di Pavese e Ungaretti; Armani, di Montale e della prima antologia di poesia italiana moderna; Di Leo è stato il traduttore di Salvatore Quasimodo. Ritengo che soprattutto Pavese e Montale abbiano influenzato gli scrittori degli anni Cinquanta e Sessanta, tra cui Juan José Saer; poi la mia generazione e le seguenti, nelle quali pure si annoverano bravi traduttori: Diego Bentivegna, María Ruschi, Pablo Anadón, Guillermo Piro, Delfina Muschietti.
Nel 2015 hai pubblicato la traduzione in spagnolo della Divina Commedia. Un’opera, immagino, ‘mostruosa’. Come ti sei avvicinato a questa traduzione? Ci sono traduzioni precedenti importanti? Quali sono state le tue fonti e come sei riuscito a ‘trasportare’ Dante in spagnolo?
Leggo la Commedia da 40 anni. Mi sembra un libro fondamentale per comprendere la letteratura e la cultura dell’Occidente. Penso che la sua struttura matematica faccia a gara con la sua fantasia e non riesco a visitare una città moderna senza pensare all’Inferno. È un ritratto della realtà e del pensiero della cultura moderna. Un mito. Ci sono in Argentina due grandi precedenti di traduzioni della Commedia: quella di Bartolomé Mitre, politico liberale e presidente della Repubblica nel XIX secolo, e quella di Ángel Battistessa, accademico e cattolico degli anni Sessanta. Mitre pensava e affermava che la Commedia era stata scritta in un linguaggio “rozzo” ma che era una delle più grandi opere dell’ingegno umano. Di conseguenza, l’ha tradotta in un linguaggio elevato. Battistessa si è attenuto alla letterarietà, ma il fatto che abbia scelto gli endecasillabi sciolti lo costringe a fare i salti mortali per evitare la rima. D’altra parte, le sue scelte lessicali sono spesso dettate dalla norma accademica. Personalmente, ho provato a pensare a un linguaggio equivalente a quello che Dante chiama “vulgari eloquentia”. Ove possibile, ho tradotto letteralmente, privilegiando il linguaggio colloquiale rispetto alla norma o alla sublimazione. Penso che Dante abbia scritto come si parlava. E io ho cercato di tradurre come si parla oggi qui. Senza trascurare che in molti casi la sintassi e il lessico di Dante sembrano intenzionalmente complessi o convenzionalmente “elevati”. È un “parlare velato” e, a mio avviso, non bisogna dimenticarsene. Ho usato il verso libero, senza schivare la rima occasionale, quasi sempre assonante. Questo imita un “parlare in versi”, che in Argentina è un modo di dire per indicare il verso inaspettato, fortuito. Ho confrontato il mio lavoro, in corso d’opera, con la traduzione di Battistessa e con quella dello spagnolo Martínez de Merlo, una delle più recenti. In poche occasioni con quella di Ángel Crespo, anch’essa spagnola. Molte volte sono tornato a Mitre, per verificare come aveva risolto certi passaggi.
Di recente hai tradotto Pavese, nel 2016 hai tradotto Pasolini. Autori così decisivi per la cultura italiana, ma così diversi. Come mai questa scelta? Quali sono state le difficoltà nel tradurre questi autori?
La scelta di Pavese e Pasolini è avvenuta per affinità ideologica ed estetica. Sono diversi, ma hanno contribuito alla mia formazione come autore. Ho letto Pavese all’epoca in cui cominciava scrivere e, senza dubbio, il mito mi era presente in lui. Pasolini è venuto dopo per insegnare, soprattutto con il suo ultimo libro, come parlare di politica, cultura ed esperienza con uno stesso linguaggio. Ho scelto di intitolare Nada personal l’antologia di poesie di Pasolini che ho tradotto, perché credo che la chiave della sua poetica sia l’annullamento del confine tra ciò che è individuale – lirico – e ciò che è collettivo. Il suo stile doveva adeguarsi a questa idea. E lui vi è giunto sin dall’inizio – Le ceneri di Gramsci – e alla fine – Transumanar e organizzar.
Vengo al tuo lavoro. Che tipo di poesia ami di più? Da dove scaturisce la tua ispirazione?
La mia ispirazione deriva piuttosto dalla “relazione fantastica” – come direbbe Pavese – che cerco di stabilire tra diversi aspetti della realtà. Sono incline a considerare il paesaggio urbano come una rovina abitata.
Sei un giornalista culturale molto importante. Come si concilia la poesia (una attività così intima) con il giornalismo (un mestiere del tutto ‘pubblico’)? Che ruolo ha la poesia nella società civile argentina? è trattata con indifferenza, con diffidenza?
Mi sono ritirato dal giornalismo cinque anni fa. Sono un pensionato. Non ho mai avvertito che vi fosse una opposizione tra pubblico e privato in termini di poesia. Il linguaggio giornalistico non ha mai infastidito quello della poesia. Si sono aiutati a vicenda. Nella società argentina la poesia riveste un ruolo più o meno nascosto ma importante. I poeti producono in continuazione libri, articoli, rubriche online, blog, riunioni, letture di poesie, festival. Il tradizionale Festival della Poesia della città di Rosario gode di un patrocinio ufficiale, al pari di quello, più recente, di Buenos Aires. Ma la cosa più importante è che radunano una gran quantità di poeti e lettori. Ciò che si produce, che si argomenta, che si legge o ascolta nell’attivissimo circuito della poesia è importante, ritengo, per la società civile. Ma attenzione: la poesia non è commerciale. Il suo essere pressoché gratuita la rende insignificante, credo, agli occhi della società borghese. Esiste una sorta di magnanima clemenza ogni volta che si pubblica una poesia in un giornale, persino nei supplementi letterari dei quotidiani.
Leggo il tuo blog, molto attivo, Otra Iglesia Es Imposible: come mai si chiama così?
È una ironia casuale. Una volta lessi quella frase, detta dal Papa. Mi sembrò che quell’idea delle “due chiese” in Italia, il Vaticano e il PCI, fosse decaduta, ce n’è solo una, ma questo oggi non ha la benché minima importanza. Forse con questo ho voluto fare un appello al realismo mitico. Insomma, è solo un nome che può attirare l’attenzione. Alcuni vi hanno letto una presa di posizione contro la divisione della poesia in “parrocchie”.
Ora: a quali traduzioni stai lavorando? Verso quale poesia ti stai orientando?
Non sto traducendo niente di nuovo. Ho tradotto da poco un libro di Biacamaria Frabotta, la cui pubblicazione è attesa quest’anno. Sono orientato alla rilettura della Commedia, cosa che ha scatenato in me l’urgenza di correggere la mia traduzione. Leggo quasi sempre gli stessi poeti – Montale, Pasolini, ultimamente più Quasimodo – e ho una grande quantità di libri di poeti italiani che non finirò mai di leggere. Leggo le traduzioni dei Cantos, di Pound, effettuate da un poeta argentino, Jan de Jager, e la traduzione del Paterson di William Carlos Williams, che sta realizzando la poetessa e traduttrice argentina Silvia Camerotto, o i poeti irlandesi che traduce il poeta e saggista Jorge Fondebrider. Alcuni poeti emergenti, soprattutto quelli che pubblico nel mio blog, mi attirano, mi piacciono. Rappresentano il ritorno al realismo in altre condizioni.
© Pangea
*
Poemas (traduzioni dallo spagnolo di Marianna Marchi e della professoressa Mercedes Ariza)
La fermezza della solitudine sui manubri
Non ho bisogno dei vasti campi per udire la solitudine popolata –
udire o vedere, annusare o palpare, un senso deve rendere conto di questo.
Sei lì in piedi,
dietro una poltrona, in uno spazio ristretto, di spalle a una finestra
di vetri smerigliati –
non posso evitare un brivido alla Poe, ma ricordo,
e il ricordo rende la tua ombra più amabile.
La diafanità dei campi e gli spettri hanno uno strano legame.
Sostanziale è anche questa vasta solitudine nelle motociclette
parcheggiate sul marciapiede.
Un pomeriggio di dicembre, 2013. Buenos Aires.
Sostanziale nell’angoscia che sente persino il sole stellato
contro un cielo di un celeste ardente.
Il deserto di genti percorso, di beduini, di motociclisti senza radici,
ma la cui radici recano il lontano partire di un’imbarcazione qualsiasi,
una scialuppa guerriera, una nave in panne, una petroliera.
Radici magnetizzate di deserto e di solitudine e di parole
che si ricordano, che mitigano, che affondano al tempo stesso, il fantasma.
Nessuno scrive su questi muri Viva mia madre. Nessuno scrive la verità.
(da El Cairo, 2015)
*
[William Carlos Williams]
Sono l’intellettuale più prestigioso dell’isolato.
Vorrei avere una De Carlo 1960 per parcheggiarla
di fronte all’Ospedale degli infetti, dove poter vederla
dalla finestra sul retro del mio appartamento
i sedili gremiti di libri e sacche di siero.
La De Carlo è bianca come la balena,
come il mio frigorifero.
Tutto galleggia
lontano e pieno di incanto
in questa bellissima città.
(da Mar de Chukotka, 2017)
*
Mimesi
E scendemmo alla seguente coincidenza
della metro e gli dissi: “Maestro, ma
che parodia è questa? Che Dardanelli difendemmo,
Leonida? Non eravamo trecento, né cento
eravamo, e finimmo nel fango tra
i cingoli delle ruspe, lì ebbe fine
la nostra superbia. Circondati ora da gentaglia
nemmeno illetterata che va all’inferno
in scarpe da ginnastica, non ci pentiamo neppure
della violenza. Vociferiamo come Capaneo
contro Tebe in un deserto di mulinelli
e pisciate. Ma quanto scenderemo ancora?
Come il fiore blu nel deserto
la speranza – e che rimanga tra noi –
la vediamo ancora. Sotto la pioggia elettrica,
come il picchiettio dei mulinelli che lacera
i timpani, abbattuti i ponti questa e altre volte,
potremo al meno apparire e dire,
teologali: il fiore blu tuttora lo vediamo nel deserto.
Tu taci, Lamborghini, noi tacciamo,
loro tacciono, il silenzio non fu una nostra virtù
e tacere ora è il contrappasso.
Tra noi tremola un fiore, di redenzione bruciata”.
(Inedito)
Jorge Aulicino
*
La firmeza de la soledad en los manubrios
No necesito los anchos campos para oír la soledad poblada –
oír o ver, oler o palpar, un sentido debe dar cuenta de esto.
Estás parada ahí,
tras un sillón, en un estrecho espacio, de espaldas a una ventana
de vidrios esmerilados–
no puedo evitar un escalofrío a lo Poe, pero recuerdo,
y el recuerdo hace tu sombra más amable.
La diafanidad de los campos y los espectros tienen un raro vínculo.
Sustancial es esta ancha soledad en las motocicletas estacionadas sobre la vereda.
Tarde de diciembre, 2013. Buenos Aires.
Sustancial en el agobio que siente hasta el sol estrellado
contra un cielo de celeste ardiente.
El desierto de gentes recorrido, de beduinos, de motociclistas sin raíces,
pero cuyas raíces portan el lejano partir de una embarcación cualquiera,
una chalupa guerrera, un barco al pairo, un petrolero.
Raíces imantadas de desierto y de soledad y de palabras
que se recuerdan, que mitigan, que ahondan a la vez, el fantasma.
Nadie escribe en estas paredes Viva mi madre. Nadie escribe la verdad.
(Da “El Cairo”, 2015)
*
[William Carlos Williams]
Soy el intelectual más prestigioso de la cuadra.
Querría tener un De Carlo 1960 para estacionarlo
frente al Hospital de Infecciosos, donde pudiera verlo
desde la ventana trasera de mi departamento,
los asientos atestados de libros y bolsas de suero.
El De Carlo es blanco como la ballena,
como mi heladera.
Todo flota
lejano y fascinante
en esta hermosa ciudad.
(Da “Mar de Chukotka”, 2017)
*
Mímesis
Y descendimos a la siguiente combinación
del subterráneo y le dije: “Maestro, ¿qué
parodia es esta? ¿Qué Dardanelos defendimos,
Leonidas? No éramos trescientos, ni cien
éramos, y terminamos en el fango entre las
orugas de las cavadoras, allí terminó
nuestra soberbia. Rodeados ahora de una mersa
ni siquiera iletrada que va al infierno
en zapatillas, tampoco nos arrepentimos
de la violencia. Vociferamos como Capaneo
antes Tebas en un desierto de molinetes
y meadas. ¿Cuánto más descenderemos?
Como flor azul en el desierto
la esperanza – quede esto entre nosotros-
continuamos viendo. Bajo lluvia eléctrica,
con el golpeteo de los molinetes que raja
los tímpanos, rotos una y otra vez los puentes,
podremos al menos comparecer diciendo,
teologales: la flor azul vemos aún en el desierto.
Tú callas, Lamborghini, nosotros nos callamos,
ellos callan, el silencio no fue una virtud nuestra
y callarnos es ahora el contrapaso .
Entre nosotros tiembla una flor, de redención quemada.”
(Inedito)
Jorge Aulicino
Dante Alighieri, Inferno. Il mucchio di versi più noto del mondo occidentale. “En el medio del camino de nuestra vida/ me encontré en una selva oscura:/ la derecha senda había perdido.// ¡Ah, cuánto el decir cómo era es cosa dura,// esta selva salvaje y áspera y fuerte// que en la mente renueva la pavura!”. Ascoltare Dante ci fa sentire a casa. Dante romba nel nostro sangue, le sue terzine rimbombano nei nostri polmoni. Perfino leggere Dante in spagnolo non è una esperienza straniante. Quelle parole ci sono così note, rintoccano genealogie e parentele, che l’Arno e il Rio della Plata, improvvisamente, ci sembrano lo stesso fiume. L’evento letterario più potente dell’ultimo decennio, in Argentina, è la traduzione della Divina Commedia in spagnolo. A compierla, uno dei poeti più autorevoli del latinoamerica. Jorge Aulicino. Classe 1949, notevole carriera come giornalista culturale (prima come editorialista per il Diario de poesía, poi come vicedirettore del supplemento culturale del Clarín), lirico tra i più raffinati dell’altro lato del mondo (nel 2015 ottiene il Premio Nacional de Poesía; tra le sue raccolte ricordiamo Poeta antiguo, La línea del coyote, El Cairo, nel 2012 ha radunato i suoi versi come Estación Finlandia), è traduttore dall’italiano. Nel 2016 ha pubblicato una antologia di poesie di Pier Paolo Pasolini, l’anno scorso ha tradotto Cesare Pavese, è passato attraverso Guido Cavalcanti, Franco Fortini, Giuseppe Ungaretti, ma pure tra i contemporanei, Antonella Anedda e Biancamaria Frabotta, ad esempio. “Leggo la Commedia da 40 anni”, ci ha detto. In effetti.
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Jorge Aulicino, tra i grandi poeti argentini di oggi, ha pubblicato nel 2015 la sua versione della Divina Commedia. Un evento culturale e letterario
Nel 2011 esce l’Inferno. Quattro anni dopo, nel 2015, è pubblica la Commedia. Non che non ne esistessero altre di versioni argentine della Commedia. Ma questa. Il poeta più grande d’Argentina che traduce il Sommo Poeta. Come se Mario Luzi avesse tradotto tutto Shakespeare. Un paragone lecito, forse, è quello con i greci reinventati da Quasimodo. L’impatto sulla cultura argentina è possente. La divina comedia: una epopeya argentina, titola La Nacion, in uno degli innumerevoli articoli dedicati all’impresa ‘mostruosa’ – o meglio, ‘divina’ – di Aulicino. “Monumento della cultura occidentale e tesoro letterario”, specifica l’editore Edhasa, che ha pubblicato la traduzione. ‘Agitatore culturale’, Aulicino ha costruito un suo personale ‘Museo de poesía antigua y contemporánea’ nel blog Otra Iglesia Es Imposible, una boccata d’ossigeno lirico buono, dove propone le poesie che gli piacciono. Infaticabile ‘dantista’ nel suo spazio facebook, al di là di architettati accademismi, Aulicino rilegge e commenta – e qualche volta ritraduce – la Commedia. Ora si sta occupando del Paradiso. Le sue lezioni digitali sono assai seguite. A pensarci si resta con la lingua all’aria: a Buenos Aires e dintorni, nei social, si parla di Dante. Secondo Aulicino, la lettura della Commedia è sterminata, perché il libro di Dante, la quintessenza dell’Occidente, è infinito. Sarebbe d’accordo pure Borges.
Quando hai scoperto l’amore per la letteratura? Come mai? Che affinità ci sono, a tuo avviso, tra la poesia italiana e quella argentina?
L’amore per la letteratura l’ho sentito non appena ho imparato a leggere. Durante tutta l’infanzia e parte dell’adolescenza ho letto solo prosa. Alle scuole superiori ho scoperto la poesia e mi ha attirato il modo particolare in cui le parole si muovevano in essa. C’è sempre un mito all’inizio, direbbe Pavese. E con questo, passo alla seconda parte della tua domanda: dagli anni Cinquanta la poesia italiana ha cominciato a influenzare i poeti argentini. Cesare Pavese, Eugenio Montale, Giuseppe Ungaretti sono stati i primi a essere letti e tradotti qui. Abbiamo avuto, dagli anni Cinquanta, ottimi traduttori di poesia italiana: Horacio Armani, Rodolfo Alonso, Leopoldo Di Leo sono stati gli antesignani. Alonso è stato il primo traduttore di Pavese e Ungaretti; Armani, di Montale e della prima antologia di poesia italiana moderna; Di Leo è stato il traduttore di Salvatore Quasimodo. Ritengo che soprattutto Pavese e Montale abbiano influenzato gli scrittori degli anni Cinquanta e Sessanta, tra cui Juan José Saer; poi la mia generazione e le seguenti, nelle quali pure si annoverano bravi traduttori: Diego Bentivegna, María Ruschi, Pablo Anadón, Guillermo Piro, Delfina Muschietti.
Nel 2015 hai pubblicato la traduzione in spagnolo della Divina Commedia. Un’opera, immagino, ‘mostruosa’. Come ti sei avvicinato a questa traduzione? Ci sono traduzioni precedenti importanti? Quali sono state le tue fonti e come sei riuscito a ‘trasportare’ Dante in spagnolo?
Leggo la Commedia da 40 anni. Mi sembra un libro fondamentale per comprendere la letteratura e la cultura dell’Occidente. Penso che la sua struttura matematica faccia a gara con la sua fantasia e non riesco a visitare una città moderna senza pensare all’Inferno. È un ritratto della realtà e del pensiero della cultura moderna. Un mito. Ci sono in Argentina due grandi precedenti di traduzioni della Commedia: quella di Bartolomé Mitre, politico liberale e presidente della Repubblica nel XIX secolo, e quella di Ángel Battistessa, accademico e cattolico degli anni Sessanta. Mitre pensava e affermava che la Commedia era stata scritta in un linguaggio “rozzo” ma che era una delle più grandi opere dell’ingegno umano. Di conseguenza, l’ha tradotta in un linguaggio elevato. Battistessa si è attenuto alla letterarietà, ma il fatto che abbia scelto gli endecasillabi sciolti lo costringe a fare i salti mortali per evitare la rima. D’altra parte, le sue scelte lessicali sono spesso dettate dalla norma accademica. Personalmente, ho provato a pensare a un linguaggio equivalente a quello che Dante chiama “vulgari eloquentia”. Ove possibile, ho tradotto letteralmente, privilegiando il linguaggio colloquiale rispetto alla norma o alla sublimazione. Penso che Dante abbia scritto come si parlava. E io ho cercato di tradurre come si parla oggi qui. Senza trascurare che in molti casi la sintassi e il lessico di Dante sembrano intenzionalmente complessi o convenzionalmente “elevati”. È un “parlare velato” e, a mio avviso, non bisogna dimenticarsene. Ho usato il verso libero, senza schivare la rima occasionale, quasi sempre assonante. Questo imita un “parlare in versi”, che in Argentina è un modo di dire per indicare il verso inaspettato, fortuito. Ho confrontato il mio lavoro, in corso d’opera, con la traduzione di Battistessa e con quella dello spagnolo Martínez de Merlo, una delle più recenti. In poche occasioni con quella di Ángel Crespo, anch’essa spagnola. Molte volte sono tornato a Mitre, per verificare come aveva risolto certi passaggi.
Di recente hai tradotto Pavese, nel 2016 hai tradotto Pasolini. Autori così decisivi per la cultura italiana, ma così diversi. Come mai questa scelta? Quali sono state le difficoltà nel tradurre questi autori?
La scelta di Pavese e Pasolini è avvenuta per affinità ideologica ed estetica. Sono diversi, ma hanno contribuito alla mia formazione come autore. Ho letto Pavese all’epoca in cui cominciava scrivere e, senza dubbio, il mito mi era presente in lui. Pasolini è venuto dopo per insegnare, soprattutto con il suo ultimo libro, come parlare di politica, cultura ed esperienza con uno stesso linguaggio. Ho scelto di intitolare Nada personal l’antologia di poesie di Pasolini che ho tradotto, perché credo che la chiave della sua poetica sia l’annullamento del confine tra ciò che è individuale – lirico – e ciò che è collettivo. Il suo stile doveva adeguarsi a questa idea. E lui vi è giunto sin dall’inizio – Le ceneri di Gramsci – e alla fine – Transumanar e organizzar.
Vengo al tuo lavoro. Che tipo di poesia ami di più? Da dove scaturisce la tua ispirazione?
La mia ispirazione deriva piuttosto dalla “relazione fantastica” – come direbbe Pavese – che cerco di stabilire tra diversi aspetti della realtà. Sono incline a considerare il paesaggio urbano come una rovina abitata.
Sei un giornalista culturale molto importante. Come si concilia la poesia (una attività così intima) con il giornalismo (un mestiere del tutto ‘pubblico’)? Che ruolo ha la poesia nella società civile argentina? è trattata con indifferenza, con diffidenza?
Mi sono ritirato dal giornalismo cinque anni fa. Sono un pensionato. Non ho mai avvertito che vi fosse una opposizione tra pubblico e privato in termini di poesia. Il linguaggio giornalistico non ha mai infastidito quello della poesia. Si sono aiutati a vicenda. Nella società argentina la poesia riveste un ruolo più o meno nascosto ma importante. I poeti producono in continuazione libri, articoli, rubriche online, blog, riunioni, letture di poesie, festival. Il tradizionale Festival della Poesia della città di Rosario gode di un patrocinio ufficiale, al pari di quello, più recente, di Buenos Aires. Ma la cosa più importante è che radunano una gran quantità di poeti e lettori. Ciò che si produce, che si argomenta, che si legge o ascolta nell’attivissimo circuito della poesia è importante, ritengo, per la società civile. Ma attenzione: la poesia non è commerciale. Il suo essere pressoché gratuita la rende insignificante, credo, agli occhi della società borghese. Esiste una sorta di magnanima clemenza ogni volta che si pubblica una poesia in un giornale, persino nei supplementi letterari dei quotidiani.
Leggo il tuo blog, molto attivo, Otra Iglesia Es Imposible: come mai si chiama così?
È una ironia casuale. Una volta lessi quella frase, detta dal Papa. Mi sembrò che quell’idea delle “due chiese” in Italia, il Vaticano e il PCI, fosse decaduta, ce n’è solo una, ma questo oggi non ha la benché minima importanza. Forse con questo ho voluto fare un appello al realismo mitico. Insomma, è solo un nome che può attirare l’attenzione. Alcuni vi hanno letto una presa di posizione contro la divisione della poesia in “parrocchie”.
Ora: a quali traduzioni stai lavorando? Verso quale poesia ti stai orientando?
Non sto traducendo niente di nuovo. Ho tradotto da poco un libro di Biacamaria Frabotta, la cui pubblicazione è attesa quest’anno. Sono orientato alla rilettura della Commedia, cosa che ha scatenato in me l’urgenza di correggere la mia traduzione. Leggo quasi sempre gli stessi poeti – Montale, Pasolini, ultimamente più Quasimodo – e ho una grande quantità di libri di poeti italiani che non finirò mai di leggere. Leggo le traduzioni dei Cantos, di Pound, effettuate da un poeta argentino, Jan de Jager, e la traduzione del Paterson di William Carlos Williams, che sta realizzando la poetessa e traduttrice argentina Silvia Camerotto, o i poeti irlandesi che traduce il poeta e saggista Jorge Fondebrider. Alcuni poeti emergenti, soprattutto quelli che pubblico nel mio blog, mi attirano, mi piacciono. Rappresentano il ritorno al realismo in altre condizioni.
© Pangea
*
Poemas (traduzioni dallo spagnolo di Marianna Marchi e della professoressa Mercedes Ariza)
La fermezza della solitudine sui manubri
Non ho bisogno dei vasti campi per udire la solitudine popolata –
udire o vedere, annusare o palpare, un senso deve rendere conto di questo.
Sei lì in piedi,
dietro una poltrona, in uno spazio ristretto, di spalle a una finestra
di vetri smerigliati –
non posso evitare un brivido alla Poe, ma ricordo,
e il ricordo rende la tua ombra più amabile.
La diafanità dei campi e gli spettri hanno uno strano legame.
Sostanziale è anche questa vasta solitudine nelle motociclette
parcheggiate sul marciapiede.
Un pomeriggio di dicembre, 2013. Buenos Aires.
Sostanziale nell’angoscia che sente persino il sole stellato
contro un cielo di un celeste ardente.
Il deserto di genti percorso, di beduini, di motociclisti senza radici,
ma la cui radici recano il lontano partire di un’imbarcazione qualsiasi,
una scialuppa guerriera, una nave in panne, una petroliera.
Radici magnetizzate di deserto e di solitudine e di parole
che si ricordano, che mitigano, che affondano al tempo stesso, il fantasma.
Nessuno scrive su questi muri Viva mia madre. Nessuno scrive la verità.
(da El Cairo, 2015)
*
[William Carlos Williams]
Sono l’intellettuale più prestigioso dell’isolato.
Vorrei avere una De Carlo 1960 per parcheggiarla
di fronte all’Ospedale degli infetti, dove poter vederla
dalla finestra sul retro del mio appartamento
i sedili gremiti di libri e sacche di siero.
La De Carlo è bianca come la balena,
come il mio frigorifero.
Tutto galleggia
lontano e pieno di incanto
in questa bellissima città.
(da Mar de Chukotka, 2017)
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Mimesi
E scendemmo alla seguente coincidenza
della metro e gli dissi: “Maestro, ma
che parodia è questa? Che Dardanelli difendemmo,
Leonida? Non eravamo trecento, né cento
eravamo, e finimmo nel fango tra
i cingoli delle ruspe, lì ebbe fine
la nostra superbia. Circondati ora da gentaglia
nemmeno illetterata che va all’inferno
in scarpe da ginnastica, non ci pentiamo neppure
della violenza. Vociferiamo come Capaneo
contro Tebe in un deserto di mulinelli
e pisciate. Ma quanto scenderemo ancora?
Come il fiore blu nel deserto
la speranza – e che rimanga tra noi –
la vediamo ancora. Sotto la pioggia elettrica,
come il picchiettio dei mulinelli che lacera
i timpani, abbattuti i ponti questa e altre volte,
potremo al meno apparire e dire,
teologali: il fiore blu tuttora lo vediamo nel deserto.
Tu taci, Lamborghini, noi tacciamo,
loro tacciono, il silenzio non fu una nostra virtù
e tacere ora è il contrappasso.
Tra noi tremola un fiore, di redenzione bruciata”.
(Inedito)
Jorge Aulicino
*
La firmeza de la soledad en los manubrios
No necesito los anchos campos para oír la soledad poblada –
oír o ver, oler o palpar, un sentido debe dar cuenta de esto.
Estás parada ahí,
tras un sillón, en un estrecho espacio, de espaldas a una ventana
de vidrios esmerilados–
no puedo evitar un escalofrío a lo Poe, pero recuerdo,
y el recuerdo hace tu sombra más amable.
La diafanidad de los campos y los espectros tienen un raro vínculo.
Sustancial es esta ancha soledad en las motocicletas estacionadas sobre la vereda.
Tarde de diciembre, 2013. Buenos Aires.
Sustancial en el agobio que siente hasta el sol estrellado
contra un cielo de celeste ardiente.
El desierto de gentes recorrido, de beduinos, de motociclistas sin raíces,
pero cuyas raíces portan el lejano partir de una embarcación cualquiera,
una chalupa guerrera, un barco al pairo, un petrolero.
Raíces imantadas de desierto y de soledad y de palabras
que se recuerdan, que mitigan, que ahondan a la vez, el fantasma.
Nadie escribe en estas paredes Viva mi madre. Nadie escribe la verdad.
(Da “El Cairo”, 2015)
*
[William Carlos Williams]
Soy el intelectual más prestigioso de la cuadra.
Querría tener un De Carlo 1960 para estacionarlo
frente al Hospital de Infecciosos, donde pudiera verlo
desde la ventana trasera de mi departamento,
los asientos atestados de libros y bolsas de suero.
El De Carlo es blanco como la ballena,
como mi heladera.
Todo flota
lejano y fascinante
en esta hermosa ciudad.
(Da “Mar de Chukotka”, 2017)
*
Mímesis
Y descendimos a la siguiente combinación
del subterráneo y le dije: “Maestro, ¿qué
parodia es esta? ¿Qué Dardanelos defendimos,
Leonidas? No éramos trescientos, ni cien
éramos, y terminamos en el fango entre las
orugas de las cavadoras, allí terminó
nuestra soberbia. Rodeados ahora de una mersa
ni siquiera iletrada que va al infierno
en zapatillas, tampoco nos arrepentimos
de la violencia. Vociferamos como Capaneo
antes Tebas en un desierto de molinetes
y meadas. ¿Cuánto más descenderemos?
Como flor azul en el desierto
la esperanza – quede esto entre nosotros-
continuamos viendo. Bajo lluvia eléctrica,
con el golpeteo de los molinetes que raja
los tímpanos, rotos una y otra vez los puentes,
podremos al menos comparecer diciendo,
teologales: la flor azul vemos aún en el desierto.
Tú callas, Lamborghini, nosotros nos callamos,
ellos callan, el silencio no fue una virtud nuestra
y callarnos es ahora el contrapaso .
Entre nosotros tiembla una flor, de redención quemada.”
(Inedito)
Jorge Aulicino
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